L’altra mattina, mentre ero ferma in doppia fila, con le quattro frecce accese che lampeggiavano, in attesa di una persona in coda per il ritiro di un documento, avvertendo una certa “fame”, decisi di prendere il mio solito yogurt e fare merenda. Con calma aprii il vasetto e portando il primo cucchiaino alla bocca, sentii immediatamente quella sensazione morbida e fresca all’interno della mia cavità orale. I profumi non erano intensi. La dolce crema, con una buona acidità, accarezzava le mie papille gustative regalandomi piacevolezza e ristoro. Mentre vivevo a rallentatore quell’esperienza, mi resi conto che, nonostante fossi nel traffico, ferma, di fretta per andare ad un appuntamento, in attesa, ero serena.
La serenità scambiata spesso con la felicità non è un’emozione, dunque transitoria, non è legata i fatti o al quotidiano; ha a che fare con la nostra condizione interiore, con la nostra capacità di stare nelle situazioni.
Quante volte nella vita ci capita di mescolare il buono e il cattivo, il dolce e l’amaro… oppure di non riuscire a distinguere i diversi sapori. Questa non è una novità e sicuramente ce ne siamo già accorti… quello che spesso ci sfugge invece, è il perché questo accade. Abituati come siamo ad agire per re-azione a quello che ci accade, nella stragrande maggioranza dei casi, siamo soliti pensare che le nostre difficoltà dipendano dall’esterno, dagli altri, senza renderci conto che invece… a volte è proprio il nostro modo di affrontare la vita che ci toglie quella serenità che tanto diciamo di cercare.
L’etimologia del termine
La parola serenità deriva dal latino serenitas, che in origine significava limpido e tranquillo. Riferendosi al cielo, serenitas era l’aggettivo che descriveva la qualità del cielo quando era privo di nubi e l’aria era secca, senza alcuna previsione di pioggia all’orizzonte. Secondo questa definizione, anche la nostra interiorità la possiamo definire serena. Noi siamo sereni quando non abbiamo nubi che ci turbano la mente. Quando siamo serafici: pervasi da una profonda serenità e beatitudine.
L’aggettivo serafico deriva invece dal latino ecclesiastico seraphicus derivante a sua volta dal latino cristiano seraphim serafino, l’angelo più in alto nella gerarchia angelica. Questa parola, seraphim, fu mutuata dal greco al quale è giunta, a sua volta, dall’ebraico śĕrāfīm, propriamente, ‘gli ardenti’ – derivato del verbo sāraf che significa ‘ardere, bruciare’.
Ma quale fuoco per gli antichi era così importante?
Quello sacro; il nostro interiore. Essere serafici ha a che vedere, con la fiamma della nostra vita.
Con queste premesse una riflessione viene dunque spontanea: se non possiamo diventare degli angeli o vivere in assenza di turbamenti, cosa possiamo fare per vivere sereni e diventare serafici?
La risposta, facile, solo nella sua apparenza è questa: possiamo impegnarci nel quotidiano a tendere verso la serenità, l’essere serafici. Ognuno di noi, giorno dopo giorno, può scegliere di coltivare uno spazio interno dal quale guardare le esperienze che gli accadono. Quando ci consentiamo di mettere una distanza, tutto appare diverso dal solito. Essere sereni e lavorare per esserlo, per diventarlo, non significa vivere in assenza di turbamenti, ma vivere in uno stato di quiete, dove l’attenzione è veicolata sul non reagire secondo schemi preconfezionati, ma sul rispondere.
Quando rompiamo delle abitudini, degli schemi ricorrenti, è come se uscissimo dalle acque stagnanti in cui siamo soliti nuotare, per aprirci al mare aperto: più insidioso, ma senza ombra di dubbio, più entusiasmante.
Quando si è sereni, non si vive senza percepire problemi o difficoltà, non si sta in uno stato di quiete e di paradiso, ma si accolgono gli eventi per quello che sono. Sospendendo il giudizio, la valutazione, l’abitudine costante di classificare ogni esperienza secondo una scala di eventi piacevoli/spiacevoli, tutto ci appare in un modo diverso. Le dicotomie perdono di importanza e grande spazio viene lasciato all’esplorazione, al toccare con mano, momento dopo momento, cos’è che veramente accade, cosa si muove in realtà… nel corpo, come nella mente, come nel mondo emozionale.
Come delle piante ben radicate al suolo, affondiamo le nostre radici in quelle che sono le nostre basi, le nostre certezze… e da lì andiamo verso l’alto, verso il cielo. Non c’è limite alla possibilità di estendersi verso l’alto, quando abbiamo ciò che ci nutre e ci fa stare ben presenti e saldi.
Sarò felice quando tutto sarà a posto
L’intenzione di concentrarsi sugli aspetti positivi non è per negare quelli negativi, ma per evitare di entrare nella spirale di pensieri che sostengono la tesi: “sarò felice quando tutto sarà a posto”, in modo da poter godere più pienamente di tutti i momenti della vita. È necessario riconoscere il buono nella vita, per sostenere con energia e ottimismo le difficoltà.
Nella ricerca della serenità, così come nel lavoro costante per costruire la nostra solidità, dalla quale volgerci verso il cielo, molto può esserci di aiuto la meditazione e, nello specifico la mindfulness. Allenarci quotidianamente a portare l’attenzione in modo intenzionale e sostenuto, anche se potremmo, in un primo momento sottovalutarlo, alla lunga, ci offre tantissime opportunità di crescita e di trasformazione. Anche con pochi minuti al giorno.
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